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Glucosamina e artrosi: prima è meglio

Sono le fasi iniziali dell’artrosi – quelle, cioè, in cui la cartilagine ha un più elevato turnover e, dunque, possiede ancora intrinseche capacità riparative – ad essere più sensibili alla somministrazione di glucosamina. A portare le prove ineccepibili di questa affermazione, il gruppo di Jean Yves Reginster, il noto reumatologo belga, autore, nel 2001, del primo studio clinico sugli effetti a lungo termine della glucosamina sulla progressione dell’artrosi.
Glucosamina e artrosi: prima è meglio

La paternità della dimostrazione degli effetti “disease-modifying” della glucosamina nell’artrosi spetta sicuramente a questo gruppo di reumatologi belgi che, ora, pubblica, sul numero di febbraio 2004 della rivista “Clinical and Experimental Rheumatology”, ulteriori dati in proposito.“I 212 pazienti con artrosi del ginocchio che avevamo trattato con 1500 mg di glucosamina orale al giorno per tre anni – spiegano i reumatologi – sono stati sottoposti anche ad un test immunoenzimatico, specificatamente preparato per rilevare, nelle urine, frammenti di degradazione del collagene di tipo II, considerati tipici marker di degenerazione cartilaginea.” “Ebbene, i soggetti che, al momento dell’inclusione nello studio, presentavano un più elevato turnover di questo tessuto, dopo 12 mesi di trattamento con glucosamina dimostravano un significativo decremento urinario dei frammenti di collagene.” Considerazione, peraltro, che i ricercatori correlano anche con quanto già dimostrato in termini di effetto “structure-modifying” della glucosamina, che, a lungo termine, è in grado di indurre il progressivo assottigliamento dello spazio articolare e, dunque, avviare il ripristino della normale morfologia articolare.“ Nell’insieme – concludono i ricercatori – con la misurazione dei tassi urinari dei frammenti di collagene, siamo arrivati a stabilire che i pazienti artrosici con alto turnover cartilagineo sono anche quelli che meglio rispondono alle sostanze “disease-modifying”, glucosamina in primis.” Dati, dunque, che vanno ad avvalorare la ben nota tesi secondo cui tanto più precoce è l’utilizzo degli agenti condroprotettori, tanto maggiore è la loro efficacia condroriparativa.